Due parole su lusso ed eleganza

Dovendo per lavoro cambiare paese, cultura, clima ogni due o tre anni, ogni volta mi si pone il problema di cosa portare con me e cosa lasciare indietro. Idealmente, mi piacerebbe essere così severo con me stesso da muovermi con quantro trova posto in una sola valigia, cioè solo con quanto è strettamente essenziale. Ma poi, dovendo non solo lavorare, ma anche vivere decentemente nel mio nuovo mondo, indulgo a nascondere tra l’essenziale anche quanto possa rendere il mio soggiorno più piacevole e vario, sicché l’eterno gioco a nascondino tra necessità e piacere inizia da capo, come un puzzle le cui tessere cambino lentamente forma e disegno.

È così, seguendo il filo di tali pensieri, che sono costantemente spinto a riflettere su cosa sia il comfort, cosa il lusso e, infine, cosa anche quell’eleganza cui l’essenziale deve conformarsi e rispondere. Sono così giunto a discernere quattro livelli di eleganza o lusso:

Il primo è quello dell’antieleganza, della negazione stessa dell’eleganza, della trascuratezza o trasandatezza di chi non si guarda neanche allo specchio e di chi indossa quel che è a portata di mano al momento, senza curarsi del proprio aspetto o di come questo venga percepito dagli altri. Forse questo è il lusso dell’assoluta libertà di spirito, o la cruda necessità imposta a chi non ha nulla, ma non è un livello che al momento mi attiri o al quale io remotamente aspiri.

Il secondo livello di eleganza è quello che io amo definire operativo, quello di chi che ha qualcosa da fare e lo fa. La precedenza qui l’hanno funzionalità, praticità e robustezza. Tanto per supportare quest’idea con qualche immagine, nel mio caso questo è il livello di pantaloni e camicie da outdoor di buona fattura, del mio Tilley un po’ consunto, del G-Shock, dei miei sigari toscani o di una pipa forse non tra le migliori, ma pratica e robusta come una Stanwell o una Savinelli da battaglia.

Il terzo livello è quello, più piacevole, delle singole belle occasioni, dei bei momenti in cui ci si compiace ad indossare qualcosa di meno quotidiano, indulgendo a qualche dettaglio che sottolinei la straordinarietà del momento, un bell’orologio meccanico, ma non troppo caro, una buona pipa di radica (penso alla mia freehand di Poul Winsløw) o in schiuma (ma decente nell’aspetto e con una vecchia aria di famiglia, per così dire) in cui fumare uno dei propri tabacchi preferiti. È l’eleganza della festa in famiglia o tra amici, un eleganza percettibile, ma sobria in cui, per un lungo e piacevole momento, si smette di essere operativi per celebrare l’essere insieme a persone care proprio in quel luogo ed in quel momento.

Questi due sono per me i livelli della vera eleganza e del vero lusso. Al di là di essi c’è l’ostentazione di chi si circonda di cose ed oggetti evidentemente e sfacciatamente costosi, sfarzosi. Mettersi in mostra in tal modo, sottolineare e rendere ovvio a chi ci circonda quanto di più degli altri (l’eleganza ha una componente personale ed una contestuale) noi ci possiamo permettere non solo è di pessimo gusto e ben poco elegante, nel senso che io do a questa parola, ma anche una schiavitù. Quanto si possiede ci definisce e questo rifugiarsi in un eccesso di estetismo è spesso il sintomo di chi ha ormai rinunciato all’azione per l’agio della stasi. Nell’eccesso di sfarzo il rapporto tra essenziale e superfluo si è infatti ormai capovolto. Il lusso ci circonda e prende possesso di noi con le sue esigenze e a divenire improvvisamente inadeguato, non è più questo o quell’oggetto, ma il temporaneo e mortale possessore di tanto eccesso.

Il benessere, l’agio che si accumula o cui si giunge nel corso degli anni, l’avanzare stesso dell’età che ci trasforma da puri grumi d’azione, quali sono i bambini, in passivi collettori di cose quali sono, troppo spesso, gli anziani ormai privi di ogni progetto, ci intrappola in desideri e gabbie dorate dalle quali occorre costantemente guardarsi. La tentazione all’accumulazione ci accompagna tutta la vita, è un fatto umano ed è sempre in agguato. La vera eleganza è sempre un esercizio di equilibrio individuale e contestuale allo stesso tempo. Se istintivamente sentiamo che qualcosa è inadeguato alla nostra età o contraddice la nostra più intima essenza, non fa per noi. Se intenzionalmente o inconsciamente ci poniamo col nostro agire e col nostro apparire troppo al di sopra (o al di sotto!) di coloro che ci circondano, dobbiamo intervenire per ridurre questo scarto, tanto più grave, quanto più il nostro apparire condiziona le nostre relazioni e, dunque, la nostra stessa e più intima felicità.

A dire il vero, esiste infine anche un livello che non ho menzionato, giusto nel mezzo dei quattro. È quello del commesso, del venditore, dell’impiegato, del burocrate, del lavoro d’ufficio… non mi soffermo su di esso, che io cerco di sfuggire. Nonostante la sua posizione mediana, non trovo in esso alcuna eleganza, né soddisfazione, solo adattamento alle circostanze, letteralmente: mediocrità. Le nostre vite meritano di più. Lasciamolo a chi ci si trova bene.