Disastro

Le fiamme ebbero inizio a causa dei giudei; infatti, ritiratosi Tito, i ribelli dopo un breve riposo si scagliarono di nuovo contro i romani e infuriò uno scontro fra i difensori del santuario e i soldati intenti a spegnere il fuoco nel piazzale interno. Costoro, volti in fuga i giudei, li inseguirono fino al tempio, e fu allora che un soldato senza averne ricevuto l’ordine e senza provare alcun timore nel compiere un atto così terribile, afferrò un tizzone ardente e, fattosi sollevare da un commilitone, lo scagliò all’interno del tempio attraverso una finestra che dava sul lato settentrionale. Al levarsi delle fiamme i giudei proruppero in un grido terrificante come quel tragico momento e, incuranti della vita e senza risparmio di forze, si precipitarono al soccorso perché stava per andar distrutto quello che fino ad allora avevano cercato di salvare.

Qualcuno corse ad avvisare Tito, che s’era ritirato nella propria tenda per concedersi un po’ di riposo dopo la battaglia; balzato in piedi, egli corse verso il tempio per cercare di domare l’incendio. Lo seguivano tutti i generali e dietro a questi le legioni in preda all’eccitazione, tra schiamazzo ed inevitabile confusione generale. Sia con la voce, sia a gesti, Cesare cercò di ordinare ai combattenti di spegnere il fuoco, ma nessuno udì le sue parole, assordato dai clamori più forti, né badò ai suoi segni, essendo tutti presi o dal combattimento o da una smania furiosa.

A frenare l’impeto delle legioni non valsero né esortazioni né minacce, tutti si lasciavano trasportare dalla furia. Accalcandosi intorno alle entrate, molti si calpestarono fra loro e molti furono anche quelli che, sospinti verso le rovine ancora calde e fumanti dei portici, subirono la stessa sorte dei vinti. Quando poi furono vicini al tempio fecero mostra di nemmeno udire gli ordini di Cesare, e gridavano a quelli che stavano più avanti di scagliarvi dentro il fuoco. I ribelli ormai non potevano più proteggersi e dovunque era strage e fuga. La maggior parte degli uccisi erano popolani deboli ed inermi, trucidati sul posto; intorno all’altare si accumulò un mucchio di cadaveri, mentre giù per la scalinata del tempio scorreva un fiume di sangue e rotolavano i corpi di quelli che venivano massacrati più in alto.

Nell’impossibilità di arginare la furia dei soldati mentre d’altro canto l’incendio si sviluppava inesorabilmente, Cesare, accompagnato dai suoi generali, entrò nel tempio per vedere il luogo sacro e gli oggetti in esso contenuti, che superavano di gran lunga la fama che ne correva fra gli stranieri e non erano inferiori al vanto e alla gloria che se ne facevano i giudei.

Poiché le fiamme non erano ancora penetrate da nessuna parte all’interno del tempio, ma stavano devastando solo le stanze adiacenti tutt’intorno, Tito giudicò che l’edificio poteva ancora essere salvato, come in effetti era, e, affrettatosi a uscire, si mise a esortare personalmente i soldati a spegnere l’incendio dando ordine contemporaneamente a Liberale, centurione dei suoi lancieri di guardia, di mettere a posto a colpi di bastone chi non ubbidiva.

Ma nei soldati il furore, l’odio contro i giudei e un incontenibile ardore guerresco ebbero il sopravvento sull’ossequio a Cesare e sul timore per le minacce del centurione; i più erano spinti anche dalla speranza di far bottino, convinti che dentro fosse un ammasso di tesori. Senza preavviso uno dei soldati entrati nel tempio gettò quindi un tizzone oltre i cardini della porta; il fuoco balenò dall’interno e più nessuno poté impedire ai soldati di propagare l’incendio.

Mentre il tempio bruciava, gli assalitori saccheggiarono qualunque cosa capitava e fecero strage di tutti quelli che presero. Bambini e vecchi, laici e sacerdoti, tutti vennero massacrati indistintamente. La guerra ghermì e stritolò ogni sorta di persone, sia che chiedessero grazia, sia che tentassero di resistere. Il fragore dell’incendio che si estendeva in lungo e in largo faceva eco ai lamenti dei caduti; l’altezza del colle e la grandezza dell’edificio in fiamme davano l’impressione che bruciasse l’intera città, e il frastuono era tale da non potersi immaginare nulla di più terrificante. Da una parte il grido di guerra delle legioni romane che attaccavano in massa, dall’altro l’urlo dei ribelli tra il ferro ed il fuoco, mentre la gente comune, rimasta bloccata, periva urlando e tentando di fuggire. Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, VI.

Quanti siamo su questa terra? Quanti uomini e donne sono privi di libertà? Quanti si arrangiano giorno dopo giorno nella povertà? Quanti sperano di giungere salvi alla sera nella guerra? Quanti vivono nell’ingiustizia e nella sofferenza?

La storia è la cronaca dell’avidità umana, della lotta dell’uomo contro l’uomo e la natura per l’accaparramento di ricchezza e potere. La scrittura, che della storia tradizionalmente segna l’inizio, non nasce come nobile espressione letteraria, ma come contabilità di magazzino. Ragioneria contabile di un’accumulazione di beni e poteri che, per la prima volta, raggiunge un livello tale da richiedere una registrazione scritta, perché troppo è ormai quanto si accumula nel tempio e nei magazzini dei re. A partire dall’inizio della storia, attraverso gli imperi dell’antichità, il feudalesimo medievale, le società mercantili ed industriali della modernità, sino al capitalismo finanziario e digitale della contemporaneità, i fenomeni storici di lungo periodo e le forme di schiavitù e dipendenza economica che hanno caratterizzato istituzioni ed organizzazioni sociali sono stati espressione e conseguenza della spinta ad una sempre maggiore e più veloce accumulazione della ricchezza nelle mani di coloro, classi, gruppi sociali, singole famiglie od individui, che hanno potuto permetterselo.

L’accumulazione materiale genera e richiede potere.

Ed il potere consente un’accumulazione ancora più feroce, che porta ad un potere ancora maggiore. In questo circolo vizioso, accumulazione materiale e potere plasmano le comunità umane in aguzze stalagmiti sociali il cui tronco si allunga ed assottiglia nel tempo, alla cui cima sempre meno individui risiedono e la cui base diviene sempre più larga, perché ogni accumulazione avviene a scapito degli altri. L’idea della produzione, della creazione ex nihilo della ricchezza è, infatti, solo un mito. Ad ogni accumulazione corrisponde una identica deprivazione. Per ogni chicco di grano nei magazzini del tempio, c’e`un chicco di grano in meno per qualche agricoltore nelle campagne. Potere e ricchezza non si generano dal nulla, ma vengono sempre sottratti ad altri individui, ad intere classi o nazioni, o alla natura stessa come bene collettivo e complesso organico di esseri viventi. L’avidità separa così gli uomini dagli uomini e dal mondo loro circostante, spezza l’originaria simbiosi tra specie e natura, crea strutture di violenza per privare i più della loro libertà a vantaggio degli eccessi di pochi.

L’accumulazione genera povertà. Il potere schiavitù.

Il prezzo per un’accumulazione ed un potere sempre maggiori sono l’ingiustizia, la guerra, la distruzione. Capire questo è capire perchè tutto ciò che è pubblico è anche politico e perché non vi può essere pace senza giustizia, giustizia senza libertà, libertà senza parità. Non vi è società nella disuguaglianza. Il paradigma del passato, che in cinque millenni ci ha portato alla soglia del collasso ecologico, non può più essere il paradigma del futuro. Noi non abbiamo certo il potere di distruggere tutto, ma avidità sufficiente a distruggere noi stessi. Ed una civiltà che si autodistrugge non merita di sopravvivere.

Vedete tutte queste cose? Qui non resterà pietra su pietra. Matteo, 25.